venerdì 24 ottobre 2008

Qualche giorno fa

“Se pensate che l’istruzione sia costosa,
provate l’ignoranza.”
Derek Bok
Presidente Emerito dell’Università di Harvard



Da qualche tempo, nella città dove vivo, la mattina presto capita di vedere uno spettacolo inconsueto.
Si muovono in gruppi che variano dai due ai quattro componenti. Sono eterogenei nella forma.
Sono famiglie, genitori e figli, papà per mano a bambini occhialuti, mamme con code di cavallo e borsoni che parlano con altre mamme.
Sono tutti spaesati, specie i papà, che son quelli che dicono ai bambini: “Allora, adesso andiamo a casa.” e gli tendono la mano e si vede che non sono abituati a farlo spesso.
Da quando è passata la legge del Ministro Gelmini, i bambini vanno raramente a scuola. Quando ci vanno, le maestre si sono vestite in modo buffo, o qualche genitore ha imbracciato una chitarra e canta.
Credo che il Ministro Gelmini (perché Maria Grazia Gelmini è un Ministro) avesse messo in conto le proteste contro il proprio decreto legge, ma sono convinta che non si aspettasse quello che sta succedendo.
Quello che sta succedendo è anche che i docenti sono tornati a parlare con gli studenti e insieme si sono messi a camminare per le strade.
Tutti, improvvisamente, si sono ricordati quanto sia importante il futuro e quanto necessario averne cura.
Persino i papà, che tendono la mano al loro occhialuto avvenire e se lo portano a casa.
Chissà, quando anche tutto questo sarà finito, cosa penseranno i bambini?

Per chiarezza

Ciuzpah si pronuncia Ciuzpà.
E non torniamoci più sopra.

giovedì 23 ottobre 2008

Presentazioni

Ciuzpah è un titolo che nasce qualche anno fa quando a me e quest'uomo ci viene un'idea: mettere dentro un noiosissimo festival teatrale uno spazio dedicato al fumetto.
Quando ti viene un'idea e la devi presentare a qualcuno, sei costretto a dargli un nome.
"Ciuzpah! Il segno dei tempi" partorimmo, allegramente futuristi.
L'iniziativa fu un successo, ma il nome - con nostro enorme stupore- non se lo ricordava nessuno e chi provava a pronunciarlo, lo storpiava impietosamente.
Il tempo comincia a darci ragione, aggiungendoci una T.

mercoledì 22 ottobre 2008

Colloqui

Ieri, quando Repubblica pubblicava il reportage di Sandro De Riccardis sui call center milanesi, sono andata a fare un colloquio di lavoro.
Avevo mandato un curriculum, mi hanno chiamata. Appuntamento alle 16,30.
Arrivo nell’ufficio e ci sono altre otto persone. La brusca segretaria mi dice che sono indietro con gli appuntamenti. Così indietro? Sì, così indietro.
Mi siedo. Sorrido e mi guardo intorno. Le persone con cui condivido l’attesa non sono come me. Io sono qui perché sto facendo un lavoro che non mi piace e ne cerco un altro. Gli altri sono qui perché un lavoro non ce l’hanno. Alcuni devono aver passato i quaranta da almeno un lustro. Altri sono molto giovani e malvestiti.
Aspetto e aiuto una ragazza a compilare il modulo che supplisce al curriculum. Ha molte domande e, si vede, non è abituata ad avere delle risposte.
Durante un precedente colloquio quando ho chiesto, dopo la nebulosa descrizione del lavoro, quanto mi avrebbero pagata, la dirigente commerciale dell’azienda mi ha guardata come se fossi appena scesa da Urano e mi ha risposto: “Non lo so.”
La cosa mi aveva molto stupita. Conoscendo la ragazza del modulo mi è parso evidente che anche lo stupore sia diventato un lusso.
Alcuni colloqui durano anche pochi secondi.
Vengo chiamata.
Alessandro mi stringe la mano con una veemenza eccessiva. Si siede di fronte a me, dietro la scrivania e comincia a leggere il mio curriculum. Senza guardarmi. Senza parlarmi. Mi fa domande con aria di sufficienza.
Chiedo quale figura professionale stiano cercando.
Alessandro si innervosisce. Non può neanche farmi qualche domanda? Certo, ma se sapessi per quale lavoro sono lì, potrei farmi un’idea.
Parte un monologo pieno di arroganza e di nomi di marchi famosi dove spiccano frasi come “perché chi lavora con me deve galoppare” e “se qualcuno dei miei dipendenti s’innamora io lo caccio. La ditta è mia e faccio quello che cazzo mi pare.”
Di mansioni non ne parla, di soldi neanche. Capisce che ho alternative e che il monologo non ha funzionato. Non sa come uscirne. Lo tolgo d’impaccio.
Esco e guardo la ragazza del modulo. Entrerà dopo di me e senza alternative.
La lascio lì, dentro un mondo che ha prodotto esseri umani che si sentono autorizzati a pensare e dire bestialità, che praticano e rivendicano l’arroganza e la sopraffazione, che non sanno rispondere alle domande.
Anche il fastidio che mi rimane addosso dev’essere un lusso. La paura no. Quella è un bene diffuso, che fa prolificare call center dove ti pagano 4 € l’ora, lavorare cassiere che si pisciano addosso, giovani professionisti che accettano trattamenti inaccettabili.
Avrei dovuto dire ad Alessandro che, se cercava galoppatori, avrebbe dovuto aprire un maneggio. Non l’ho fatto. Chissà come è potuto accadere?

Il vizio di Roberto

Qualche sera fa ho visto Roberto in tv.
Ho apprezzato il libro che ha scritto. Ho apprezzato che l’abbia scritto.
E mi è piaciuto molto il film che ne è stato tratto.
In tv Roberto parlava della camorra. Ne parlava come uno che si è davvero documentato, circostanziava nomi ed eventi, metteva a sistema geografia e storia. Era chiaro nell’esposizione, avvincente nel racconto.
Riuscivo a capire anch’io, che vivo nella provincia toscana e la camorra l’ho letta nei libri e vista nei film.
E mentre Roberto parlava mi chiedevo cosa c’è nella testa di uno che accanitamente ha studiato per scrivere un libro, per il quale vive sotto scorta, dai cui concittadini è considerato un visionario rompicoglioni (raccontava che durante il trasloco, quando con le guardie del corpo è entrato in macchina, la folla accalcatasi intorno all’auto gridava: “Vedi? Finalmente l’hanno arrestato!”).
Mi chiedevo come si fa a vivere così. Non tutti ce la fanno a vivere così. Provano. Poi scrivono una lunga lettera ai propri cari e si buttano da un viadotto.
A un certo punto ho capito. Saviano è animato, oltre che da un profondo senso di legalità che probabilmente manca a molti di noi, dalla vanità.
Saviano è vanitoso.
Tanto da risultare un rompicoglioni.
Tanto da mettersi contro la camorra tutta.
L’appello di Repubblica l’ho firmato, perché la vanità mi sembra un peccato più che marginale e la solitudine non richiesta una pessima condanna.
Sapevo che qualcuno non l’avrebbe fatto e mi aspettavo qualche teoria “bastian contraria”.
Ma non credo si possa scrivere che per vivere senza scorta basti affittare un appartamento a Londra.
Credo che ognuno debba e possa vivere dove vuole. Ci tengo proprio.
Non riusciamo più a fare le cose semplicemente giuste. Siamo diffidenti e sappiamo scriverlo anche bene.
Ah, la vanità!

Va bene

Proviamoci.

Prendersi confidenza

Il primo post fa un po' effetto.
E ho nella testa la frase di uno spettatore a commento di una qualche rappresentazione teatrale: "Non ne sentivo il bisogno.".
Ecco, questo mi sto dicendo, che noncenèbisogno.
E, bisogno, ovviamente, non ce n'è.
Però, siccome mi capita di scrivere, vorrei vedere che effetto fa mettere in fila un paio di cose.
Sempre ammesso che ci riesca.