mercoledì 22 ottobre 2008

Colloqui

Ieri, quando Repubblica pubblicava il reportage di Sandro De Riccardis sui call center milanesi, sono andata a fare un colloquio di lavoro.
Avevo mandato un curriculum, mi hanno chiamata. Appuntamento alle 16,30.
Arrivo nell’ufficio e ci sono altre otto persone. La brusca segretaria mi dice che sono indietro con gli appuntamenti. Così indietro? Sì, così indietro.
Mi siedo. Sorrido e mi guardo intorno. Le persone con cui condivido l’attesa non sono come me. Io sono qui perché sto facendo un lavoro che non mi piace e ne cerco un altro. Gli altri sono qui perché un lavoro non ce l’hanno. Alcuni devono aver passato i quaranta da almeno un lustro. Altri sono molto giovani e malvestiti.
Aspetto e aiuto una ragazza a compilare il modulo che supplisce al curriculum. Ha molte domande e, si vede, non è abituata ad avere delle risposte.
Durante un precedente colloquio quando ho chiesto, dopo la nebulosa descrizione del lavoro, quanto mi avrebbero pagata, la dirigente commerciale dell’azienda mi ha guardata come se fossi appena scesa da Urano e mi ha risposto: “Non lo so.”
La cosa mi aveva molto stupita. Conoscendo la ragazza del modulo mi è parso evidente che anche lo stupore sia diventato un lusso.
Alcuni colloqui durano anche pochi secondi.
Vengo chiamata.
Alessandro mi stringe la mano con una veemenza eccessiva. Si siede di fronte a me, dietro la scrivania e comincia a leggere il mio curriculum. Senza guardarmi. Senza parlarmi. Mi fa domande con aria di sufficienza.
Chiedo quale figura professionale stiano cercando.
Alessandro si innervosisce. Non può neanche farmi qualche domanda? Certo, ma se sapessi per quale lavoro sono lì, potrei farmi un’idea.
Parte un monologo pieno di arroganza e di nomi di marchi famosi dove spiccano frasi come “perché chi lavora con me deve galoppare” e “se qualcuno dei miei dipendenti s’innamora io lo caccio. La ditta è mia e faccio quello che cazzo mi pare.”
Di mansioni non ne parla, di soldi neanche. Capisce che ho alternative e che il monologo non ha funzionato. Non sa come uscirne. Lo tolgo d’impaccio.
Esco e guardo la ragazza del modulo. Entrerà dopo di me e senza alternative.
La lascio lì, dentro un mondo che ha prodotto esseri umani che si sentono autorizzati a pensare e dire bestialità, che praticano e rivendicano l’arroganza e la sopraffazione, che non sanno rispondere alle domande.
Anche il fastidio che mi rimane addosso dev’essere un lusso. La paura no. Quella è un bene diffuso, che fa prolificare call center dove ti pagano 4 € l’ora, lavorare cassiere che si pisciano addosso, giovani professionisti che accettano trattamenti inaccettabili.
Avrei dovuto dire ad Alessandro che, se cercava galoppatori, avrebbe dovuto aprire un maneggio. Non l’ho fatto. Chissà come è potuto accadere?

Nessun commento: