martedì 30 novembre 2010

Struggenti su pvc


Un amico che vive all'estero, mi ha chiesto cosa pensassi di “Vieni via con me”.
Un amico lo riconosci perché s'interessa a cosa pensi, un amico che vive all'estero lo riconosci perché s'interessa a cosa pensi di quello che accade lontano da lui.
Nella breve conversazione che abbiamo avuto, ho detto poco e male.
Però poi ci ho pensato e ora so cosa dirgli.
“Vieni via con me” ha avuto, in alcuni momenti, una caratteristica speciale: mi ha commossa.
Non solo per l'ottimo arrangiamento della canzone di Paolo Conte, non tanto per l'incantevole immagine delle aste di vecchi microfoni che scivolano sul pavimento e neanche per la bella idea degli elenchi. “Vieni via con me” è la prima cosa, che da tanto tempo a questa parte, si occupa del mondo in cui viviamo noi.
Parlavano proprio di noi, di quello che ci succede, intorno e dentro.
Noi, noi che di noi non si può parlare, perché i maestri più benevoli ci ritengono inopportuni e gli altri pensano che ci possiamo esprimere solo in presenza di qualcuno che ci dia torto.
Noi che c'abbiamo delle opinioni che ci fanno sentire soli, lì non lo eravamo più.
Perché quello era un collage di solitudini su pvc.
Quindi ci siamo commossi e lo abbiamo ritenuto un privilegio in questi tempi in cui si ride di tutto, anche di anziani uomini di potere che hanno rapporti equivoci con delle ragazzine.
E si capiva dal titolo che parlavano di noi e da quel gioco sull'andare e sul restare, che è la cosa che ci riguarda di più al mondo.
La nostalgia dell'emigrare e il dolore dello stare qua. Proprio qua.
Guardatevi il finale, ma prima preparate i fazzoletti.

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